Mostra "Senza Titolo" - Critica
Cosa significano questi chiodi ripiegati, queste tavole spezzate e ricomposte, queste composizioni dove c’è sempre una fenditura, uno strappo, una cancellazione? E’ come se quello che affiora alla superficie dipinta – e viene da sussulti dell’anima, da un travaso profondo di memorie – giungesse con le stigmate di un percorso dolente e fosse trattenuto, cucito, nonostante la dissipazione del tempo, il disfacimento del corpo. Quello che resta è quello che conta. E quello che si cancella, paradossalmente, è quello che resta. E’ l’impressione della vita in un volto, in versi, in fotogrammi di passato rubati. E sono sempre visi quelli che affiorano, schiudendo il mistero dietro le cortine del tempo. Allora quelle feritoie, quei passaggi oscuri sono appunto passaggi e non solo crepe, ferite. C’è qualcosa del metafisico taglio di Fontana in questi interstizi di Paolo Bazoni, ma non sono tagli in spazi assoluti, bensì varchi sofferti nel mistero dell’uomo. Oppure sono relitti, lembi di un vecchio tessuto, pezzi di legno, di pietra, materiali di recupero sopra i quali persiste un volto, una mano. Solo l’amore raccoglie questi flutti dalla tempesta dei giorni, soccorre dal naufragio dei ricordi, salvando in quei ritratti l’essenza di chi non è più o l’invisibile di chi è ancora.
Bazoni opera anche un cubismo alla rovescia, che non disgiunge, frammenta, ma ricompone, accosta, a volte un solo spirito, a volte un concerto di esseri viventi. Non importa se le sue opere possono essere segnate, violate più o meno volontariamente dal gesto dell’artista o dall’ineluttabilità della sorte. Lascia che sia, perché così è la vita: imperfetta, imprecisa. Solo la morte è ordinata, immobile, in una stasi rigorosa ma vuota, dove non risuona più nulla. Qui invece, dietro queste immagini, dietro queste facce riecheggiano storie, sussurrano voci. Aiutato da un disegno accurato, Bazoni sembra porre il colore con lenta sapienza rammentando un gesto di disciplina e meditazione. Si sente la forza di una consapevolezza profonda, di una pace interiore anche nella ricerca, nella brama di salvare dall’oblio vicende ed esistenze.
Certi fondi screziati di colore evocano persino vibranti atmosfere simboliste, mentre le apparizioni di questi visi, come lembi d’immagini lacerate, recuperate alla cancellazione, all’uniformità del nulla, rimandano a Bacon, ma anche qui, come per il già citato cubismo, l’operazione è rovesciata. Non c’è infatti dissoluzione, liquefazione, ma emersione, un procedimento quasi scultoreo che implica il levare, l’estrarre da un flusso silenzioso o evidenziare col colore dalla rigidità di un’immagine polverosa, in bianco e nero.
Paolo Bazoni ribalta i consueti procedimenti artistici e non si fa soccorrere da didascalie. “Senza titolo” è il titolo. Un altro paradosso. Non però per un’arte che cerca non la definizione di un nome, ma la versatilità dell’anima. Allora tutto è possibile e il titolo va cercato dentro l’opera e soprattutto dentro di noi. Si va all’essenza. Come concludeva Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, ricordando un’espressione della filosofia medievale: “Rosa stat pristina nomine. Nomine nuda tenemus”. Bazoni concentrandosi sul particolare distratto, sfuggente, coglie l’universale, il persistente, ovvero l’uomo e la sua poesia. L’eterno che non ha nome.
Manuela Bartolotti